Prefazione di Delio Cantimori alla biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice

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Furon da principio ben pochi coloro che, fra Napoli e Torino, provenienti dalle lontananze di sofferenze antiche e di ribellioni locali e di un meno antico ma non meno profondo movimento internazionale, sostanziato di reali e sanguinose lotte e insieme di paziente riflessione e attività politica, storica ed economica, seppero capire e giudicare storicamente sul serio, vedendo al di sotto della parvenza, quei grandi, numerosi e venerandi spesso personaggi di primo piano, i quali lottavano l’un con l’altro sul proscenio; e che seppero iniziare un’azione consapevole ed organizzata contro di loro come contro il protagonista che in sé li riassumeva, per negativa o per positiva, per odio o per amore: ognuno con le sue ragioni, con le sue argomentazioni, coi suoi calcoli, con le sue miopie e le sue lungimiranze, con le sue concessioni e le sue passioni, con le sue concezioni del mondo e della storia lontana e vicina, molti con severa fermezza morale, ma in grandissima parte – almeno da principio – disorientati e in ultima analisi disposti a sperare, anche senza rendersene conto, nella possibilità che quell’uomo, con la sua grande energia, con il suo fiuto di capopopolo, con il suo istinto politico, potesse, in qualche miracoloso modo, ritrovare le sue origini: testimoni grotteschi quei vecchi cuori che al crepuscolo si risvegliarono e palpitarono all’eco delle parole di repubblica sociale, allora che Mussolini era diventato strumento dell’immane alleato "forte e potente".

….. Quegli uomini che avevano saputo vedere chiaro, criticando i gruppi che in Mussolini ritrovavano, per opposizione o per adesione, contraddittoriamente, con fasi alterne e diverse, il loro terreno comune; quegli uomini veri che avevano saputo trovare il modo di combattere, in condizioni realmente dure e pesanti, tanto Mussolini e i suoi seguaci, illusi o meno (ben presto riconosciuti per quello che erano, come appaiono nelle ultime pagine di questo primo volume della, insomma, grandiosa opera biografica intrapresa dal De Felice), quanto gli strati sociali che in essi si riassumevano, eran gente che non solo veniva di lontano, ma che si muoveva su un terreno fermo e solido, quello della lotta di classe, della classe operaia e contadina contro la classe capitalista, ed era anche gente che sapeva di filologia e di storia abbastanza per non commuoversi all’idea che Mussolini da giovane avesse diretto proprio un settimanale che aveva il titolo "La lotta di classe"; gente che aveva tanta capacità critica ed autocritica da sapere che non si può dare gran peso a rapporti personali, a momentanee e umane ingenuità e speranze in questa o quella persona, in un periodo così confuso della nostra storia italiana, quando si fosse certi della linea generale di lotta e della realtà sostanziale ed effettuale da affrontare.

Del resto, la fine della carriera personale e individuale di Benito Mussolini è avvenuta per opera d’uno che a quel gruppetto di uomini ha fin da principio appartenuto; questo è almeno quanto è stato pubblicamente e responsabilmente dichiarato. Forse, nell’ultimo volume di questa sua opera cosí importante e di cosí ampio respiro, il De Felice ci fornirà documenti e particolari tali da modificare quelle dichiarazioni: ad ogni modo, esse sono state fatte, e rimarranno in quanto sono state fatte, con un loro significato, anche se i retroscena potranno cambiare. Per un verso, la storia della morte di Benito Mussolini rammenta purtroppo troppe pagine, diremo, della raccolta muratoriana; ricorda i racconti su quella morte del Prina che scosse nei precordi Alessandro Manzoni, oppure le narrazioni sulla morte di Pellegrino Rossi per mano di Ciceruacchio; e fa ritornare alla mente grevi pagine delle Istorie Fiorentine del Machiavelli. Per questo verso si rientra nella visuale storica retrospettiva locale delle chiuse, tetre e meschine cronache delle lotte cittadine italiane. Per un altro verso, tuttavia, quella morte e i mesi che la precedettero, possono anche rammentare la saga dei Nibelungi nella traduzione cinematografica di Fritz Lang, o, se si vuole, alcune pagine del vecchio Rovani. Nel giro della saga nibelungica Benito Mussolini era stato trascinato, durante gli ultimi anni della sua presenza sulla scena storica e politica, dal concatenarsi di eventi da lui in qualche modo presentiti (forse fin dal tempo di un suo viaggio in Germania, sul quale attendiamo luce dal De Felice, in uno dei prossimi volumi di questa sua fondamentale opera); ma nel loro senso generale e non certo nell’effettivo articolarsi politico degli eventi. Ciò ben si addice ad un protagonista. Trascinato, in fin dei conti, e non sa da chi, né come: un uomo che cerca, – per usare una immagine del De Felice, – e cammina seguendo una sua stella, – per usare un’immagine che fu attribuita a Mussolini –: la stella lo trae, – non si sa dove. Actus, non agens, potrebbe dire qualche teologo, applicando scolasticamente a questa vita e a questa storia un grido profondo di Martin Lutero. È vero che oggi i teologi san piú di sociologia che di storia: e dimenticano che la storia c’è stata e c’è, sia pure come cenere e polvere e ruggine gravide di tetano, o come strani rilievi che solo la fotografia aerea sa indicare nel pianeggiare dei campi di grano o di orzo. Ma lasciamo da parte la cultura storica dei teologi, ed osserviamo come ad un protagonista si addica non solo questo presentarsi quale uomo trascinato da questo o da quel "Fato" o "Destino", ma anche quel carattere generico e "classico" delle sue intuizioni politiche a lunga scadenza: propone e impone la direzione generale, e spesso vede o intravvede quel che c’è da fare in una certa situazione storica e in una data prospettiva, ma si lascia trainare dalla sua stella, non si occupa direttamente delle possibilità ed eventualità particolari (de minimis non curat). È ovvio ancora come a tal protagonista s’addicano storici e biografi dapprima appassionati e rozzi, tanto nell’apologetica quanto nella polemica, poi, attraverso la ricostruzione cronachistica e la sistematica ricerca della documentazione d’archivio, le indagini, le interviste, sempre meglio informati, forniti di notizie precise; tuttavia, pur sempre in qualche modo sottilmente e apologeticamente legati alla figura del protagonista come egli si è presentato; e sembra ovvio infine come a lui e a chi di lui ha fatto oggetto del suo studio e della sua narrazione, si addicano in un primo momento anche considerazioni e riflessioni generiche e di aspetto letterario e classicheggiante come le presenti. Questo discorso potrà forse sembrare "difficile" e complicato: ma forse si tratta soltanto del pesante ricordo del modo complicato e imbrogliato dell’andar delle cose e degli uomini in quel periodo.
Il motivo del "protagonista" o del "protagonismo" politico è stato adoprato forse da altri osservatori prima di quello che stiamo per citare, ma certo anche da un contemporaneo, piú anziano d’età, – ed "estimatore" come in certi ambienti si usava dire, – di Mussolini: mazziniano, massone, avvocato celebre, oratore acclamato dagli elettori repubblicani delle Marche, della Romagna, dell’Umbria, del grossetano, della zona laziale, ascoltato con rispetto dagli uomini del suo partito. Questo motivo si può ritrovare in un libro, speriamo di non errare, di ricordi di Innocenzo Cappa. C’era chi rammentava e ci raccontava come il Cappa seppe incantare, celebrando la data del 4 novembre, nel 1922, la composita e riottosa folla di "interventisti" che era andata (o era stata costretta con le buone o con le cattive ad andare: ma insomma c’era andata) ad ascoltarlo. La voce ben modulata, i sostantivi rari e insieme roboanti, gli aggettivi emozionanti ed evocativi, l’uso sapiente dei nomi di patria, guerra, unità, sacrificio, rivoluzione sociale, rivoluzione nazionale, solidarietà, popolo, avvenire, concordia, vittoria non potevano non portare alla mozione degli affetti. Il Cappa era arrivato a Forlí con piú di un’ora di ritardo, e c’era stato tutto il tempo perché sul palcoscenico le rappresentanze cominciassero ad alzar gli uni contro gli altri le mani e le aste dei gagliardetti e bandiere: ex nazionalisti contro ex sindacalisti, ex repubblicani contro ex socialisti; mentre mezza platea protestava contro la marcia reale (ma non contro Giovinezza): tanto, il prefetto attendeva altrove l’arrivo dell’oratore ufficiale designato da Roma, per quella difficile commemorazione e in quella difficile città. Ma, quando il Cappa ebbe finito, eran tutti commossi: soddisfatti e truculenti alcuni; altri, entusiasti e accalorati del loro entusiasmo; gli uomini di carattere, mazziniani all’antica, erano solennemente ed icasticamente pensosi – non, ovviamente, del partito o della setta, ma della patria; qualche fascista nel senso vero e proprio della parola, guardava con disprezzo palese quel compiaciuto ed esibito rivoltolarsi di sentimenti e di meditazioni. Le parole "fascista vero e proprio" vengono qui usate nel senso dei periodi conclusivi di questo primo volume dell’opera biografica, intrapresa dal De Felice con tanto gusto storico e con tanta perizia e fortuna (meritata fortuna) di ricercatore di materiale documentario e di esploratore di archivi: "Mentre Mussolini realizzava attorno all’epilogo dell’avventura dannunziana il suo inserimento nel gioco politico-parlamentare a livello nazionale, i primi colpi del fascismo agrario emiliano provocavano cosí la costituzione di un fronte unico conservatore-reazionario della borghesia agricola, di quella commerciale e di quella industriale. Trionfava cosí, dopo il "biennio rosso", la reazione e nasceva il vero fascismo".
Dopo il successo della celebrazione patriottica, alcuni maggiorenti locali, mazziniani e repubblicani, trovarono modo di incontrarsi in un piccolo gruppo col Cappa; quel nostro informatore fu ammesso e invitato da alcuni anziani ad assistere a quello "storico evento" (le parole furono dette realmente), del quale essi si sentivano protagonisti: e si trattava insomma dell’accettazione della vittoria di Mussolini e dei suoi. Attorno ad un tavolo di legno nudo e grigiastro, cosí gli sembrava di ricordare, ascoltavano le parole dell’uomo eloquente. C’era chi partecipava per chiedere lumi al politico che veniva da Roma, chi per avere informazioni, chi per proporre dubbi, o per chiedere se davvero ci si potesse fidare di "quell’uomo" (cioè Mussolini); se proprio fosse dovere patriottico non combatterlo, o se addirittura bisognasse "stare con lui". Alcuni anche volevan chieder conto al Cappa, loro vecchio amico politico, del suo evidente passaggio "all’altra parte". Facce serie, occhi sospettosi e indagatori, opachi per collera, ansiosi per desiderio di qualche indicazione accettabile. In ombra, il ragazzetto liceale, compreso di reverenza, ascoltava quei conversari riservati, intriso di curiosità per le cose della politica e del mondo come va e come dovrebbe andare; e osservava, incerto e stupito, i volti di quei protagonisti: la solennità pubblicamente esibita delle meditazioni patriottiche s’era trasformata in sincera perplessità, in un’ansia smarrita. Complicate le argomentazioni e le discussioni di casi locali assunti come simboli della situazione nazionale, aspre a volte le contestazioni al Cappa per il suo passaggio dall’opposizione ad un atteggiamento, come poi sarebbe stato detto, di "fiancheggiatore". Ma dopo questi ricordi, il nostro conoscente divagava sulla risposta del Cappa, il quale descriveva l’entusiasmo dei giovani e giovanissimi fascisti, la bellezza della loro disposizione al sacrificio, e assumeva quegli entusiasmi e quella disposizione come testimonianza e garanzia della serietà politica e patriottica del "fascismo", e come spiegazione politica della propria personale metamorfosi; tutta quella bellezza e quella giovinezza gli eran suonate cosí false da irrigidirne la mente in una freddezza di osservatore, curioso e pieno di interesse, ma sempre piú distaccato. E ciò non riguarda noi, né la tetralogia biografica del De Felice, né la storia del "fascismo", né quella dei comunisti italiani, né quella dell’Italia in quel periodo, né quella dell’Azione cattolica, né quella dei liberali, né quella del movimento di Giustizia e Libertà, né quella della resistenza.
Tuttavia quei racconti di non nostre memorie forlivesi ci sembrano utili, e speriamo che cosí sembrino anche al lettore, a riassumere e simboleggiare brevemente, attraverso il microbico microcosmo di quella nottata del 4 novembre 1922, la confusione e il disordine delle menti (eran presenti persino lettori del Croce e del Gentile, che allora sembravano un binomio consolare della nuova e moderna intellettualità italiana), il prevalere di sentimenti e passioni, il senso indistinto e oscuro che ci si faceva complici di qualcosa che non si voleva ma non si sapeva definire, e che ciò avveniva proprio nel nome di grandi ideali e di sentimenti genuini: amor di patria, solidarietà nazionale, democrazia, solidarietà di combattenti contro l’Austria. L’accettazione della vittoria fascista non era né senza riserve né senza qualche vergogna, né qualche scontroso rimbrotto. Ma c’era la famigerata spiegazione, che si tramutava rapidamente e agevolmente in derivazione e sfogo di quel disagio oscuro, eppure pesante: se i socialisti avessero saputo accettare...; sei comunisti avessero voluto non esserci... Il linguaggio aspro, pretensioso, truculento, risuonante di memorie secolari – "direttorio", "commissario del popolo" – o piú recenti, carducciane o alla Victor Hugo, sembra oggi piuttosto comico e provinciale: e certo, se confrontato con quello del gruppo comunista torinese o anche con lo stile della burocrazia di formazione "giolittiana", era davvero provinciale.
È sufficiente leggere con attenzione l’ammirevole, e, ci sembra, realmente importante, biografia di Mussolini elaborata nel 1919 dall’ispettore generale Gasti, che il De Felice ha scoperto e pubblicato nell’appendice (n. 18) di questo suo primo già imponente volume. Ci si può render conto, analizzandola criticamente e storicamente, anzitutto della solidità e intelligenza, anche politica, raggiunta dai funzionari dell’amministrazione giolittiana: è cosa ormai riconosciuta, ma che non dispiace certo trovare confermata da qualche documento, specie se di carattere eccezionale come questo ci sembra. Ma qui preme soprattutto osservare come quella solidità e intelligenza si sapessero esprimere in maniera semplice, diretta, precisa, seria, che insomma non si può dire provinciale; del resto, basta confrontare la prosa del Gasti anche soltanto con le prose di Mussolini o del De Ambris, riportate dal De Felice. È vero che al Gasti era facile scrivere senza presupposti, – per usare una formula di Max Weber, – dal momento che, mentre estendeva il suo rapporto, non aveva da pensare né agli umori di una commissione di concorso a cattedre o a libere docenze di storia contemporanea, né a un pubblico generico, rigurgitante di spiriti polemici e di acredine, mosso piú spesso, tanto nel giudizio politico che in quello storiografico, da oscuri calcoli, da atavici conformismi dei quali oggi sembra addirittura cattivo gusto e viltà non tener conto, da sentimenti violenti, ma passeggeri e incostanti. Il Gasti non sentiva minimamente l’assillo, comune a tanti uomini politici del tempo – stiamo a molte delle pagine di Mussolini e di De Ambris, p. es., citate dal De Felice nell’ultimo capitolo di questo volume – che si sentiva costretti a mettere in mostra, mediante un linguaggio sostenuto e pieno di sussiego, la loro intima natura di capi e le proprie arcane capacità di uomini di stato o "statisti"; egli sapeva bene di rivolgersi a gente seria e riservata. Quindi si potrebbe costruire l’ipotesi che in posizione meno riservata (di responsabilità verso un pubblico vasto ed aperto, non di responsabilità verso alcuni ministri e direttori generali) l’acutezza e la precisione di giudizio del Gasti si sarebbero un po’ attutite, e sarebbero state come velate da riguardi umani i quali ne avrebbero ridotto di molto la lucidità critica. Ma non ci sembra che né questa, né altre considerazioni del genere cambino la sostanza delle cose né per quanto riguarda il linguaggio, né per quanto riguarda il giudizio politico e storico: quest’ultimo, del resto, è stato fatto proprio dal De Felice.
Abbiamo insistito sul linguaggio, sulla lingua, sul modo di scrivere, perché in imprese grandiose e ardite come questa iniziata ora dal De Felice, e specialmente nel lavoro storiografico, occorre saper bene per lo meno non solo quel che si vuole esporre, ma soprattutto come lo si vuole esporre o narrare: specialmente quando si assuma la persona dello storico tout-court, alla maniera di Federico Chabod, e si rifiuti una terminologia o gergo o dialetto storiografico determinato, e a sua volta, come si suol dire, "caratterizzante", di tipo idealistico-crociano, idealistico-attualistico, marxista e leninista, o come si voglia. Questi gerghi permettono al lettore un rapido orientamento e una comprensione non superficiale, anche se a volte sembra che facciano un discorso unilaterale. Anzi, la chiarezza terminologica, appunto perché spesso unilaterale e limitata, consente una critica e una integrazione, ed invero le provoca: e anche in questo sta la vitalità dei lavoro storiografico.
Il De Felice, col suo grande talento di esploratore e di ricercatore, con la sua solida e vasta preparazione, col suo fiuto vivacissimo di indagatore e di intervistatore, con l’acutezza e penetrazione dei particolari individuati, con l’ardire, che gli è proprio, di cercare la realtà dei fatti e delle azioni e di affrontare argomenti o temi particolarmente ardui, con quella sua profonda e salutare diffidenza critica che lo induce a cercare, anche discendendo tra pubblicazioni quasi iniziatiche e semiclandestine, la realtà delle cose (per esempio, nelle sue ricerche su figure poco piacevoli o gruppi oscuri, come certi pubblicisti acrimoniosi o come certi visionari e ispirati del periodo della rivoluzione francese); il De Felice è certo in grado di affrontare un’impresa cosí difficile e complessa come la biografia di Mussolini: e forse è in grado di affrontarla meglio di tanti altri studiosi di storia contemporanea, oggi, in Italia.
Non parliamo delle difficoltà derivanti dall’argomento stesso, cioè dalla figura, ancora presente in tanti odi e in tanti miti, della persona di Mussolini. Su questo punto occorrerà tornare quando l’esposizione del De Felice sarà completata, e avremo davanti a noi, partendo dalle discussioni che questi volumi avranno provocato, continuando coi documenti e l’altro materiale nuovo raccolto, ritrovato e riportato alla luce dal De Felice, e infine concludendo con la lettura delle ricostruzioni e delle valutazioni del De Felice stesso nei suoi quattro volumi, un quadro completo. Non ci soffermeremo sulla questione delle difficoltà particolari agli studi di storia contemporanea; l’esempio del De Felice mostra come si possa, anche a proposito di persone e cose cosí vicine nel tempo, reperire e usare una documentazione varia e vasta, archivistica o meno, a volte casuale e frammentaria, a volte in serie piú complete, e come la si possa combinare con le notizie e le informazioni e le valutazioni piú note o piú accessibili. Certo non è cosa da tutti; ci vogliono doti che non tutti posseggono, e che il De Felice possiede, come s’è già accennato, e che sono, per cosí dire, rese in lui piú intense da una insaziabile curiosità e come voracità, a volte impaziente, di precisazioni, cognizioni e valutazioni storiche e biografiche particolari. Non ci soffermeremo neppure a parlare del genere "biografia" nella letteratura storiografica in generale e in quella italiana in particolare; né delle piú recenti biografie di uomini politici degli ultimi decenni. Il De Felice stesso accenna, nelle sue pagine preliminari, alle difficoltà inerenti ad ogni tentativo biografico su una personalità politica d’una certa importanza, quando non si voglia riprendere lo schema tradizionale: "La vita e i tempi di X", – che può essere orientato o nel senso di "X nei suoi tempi" o nel senso di "il periodo tale della storia di quel paese, di quel movimento, ecc., nella vita di X", con tutta una serie di variazioni derivanti dalle idee diverse che si hanno, esplicitamente o implicitamente, sulla storia, sull’individualità politica e personale o d’altro genere: dal grand’uomo del Burckhardt, all’eroe del Carlyle, all’uomo rappresentativo dell’Emerson al figlio del suo tempo e della sua classe, benefico alla sua classe, al suo popolo e al suo tempo, e cosí via. Il De Felice mostra già in questo primo volume la capacità, neppur questa molto comune, di saper costruire saldamente la struttura fondamentale di una biografia, cosí avventurosa; e saldamente vuol dire anche con senso dell’equilibrio e delle proporzioni fra un capitolo e l’altro, all’interno della biografia stessa. E non staremo a discutere l’accentuazione dell’elemento biografico individuale e personale che il De Felice ha prescelto. Certo, con una personalità prepotente come quella di Mussolini, il rischio di soggiacere al fascino (negativo o positivo) di essa, era notevole; ed è un merito del De Felice di averlo saputo affrontare, tenendo conto di tutti gli aspetti, in un tentativo di biografia di nuovo tipo. Già i titoli dei quattro volumi (Il rivoluzionario, Il fascista, Il duce, L’alleato) indicano a chi sia attento e avvertito dal punto di vista dell’uso delle parole, la tendenza ad una determinata terminologia politico-sociologica e psicosociologica, che si è tentati di definire mediante accostamenti a tendenze di riflessione filosofica e politica che si riconnettono in qualche modo al gruppo di Felice Balbo: ma non siamo sicuri, e non vorremmo opporre, a discorsi un po’ generici (almeno per noi), discorsi un po’ troppo rozzi (almeno secondo le concezioni modernissime). Fra l’altro, tale linguaggio sociologico comporta una gran quantità di quelle che a noi sembrano perifrasi e circonlocuzioni, e invece pare vengano considerate oggi particolarmente ampie ed insieme esatte, entro l’insieme di un certo dato sistema (del quale ci sfuggono ora i presupposti, il preciso e concreto significato e la portata reale). Lo stile complicato che ne segue offre certo un grande vantaggio a chi debba affrontare la navigazione in una biografia di questo tipo: esso permette infatti di includere nel discorso biografico giudizi storici che, se fossero presentati nella semplice e diretta maniera tradizionale, apparirebbero contraddittori ed anche opposti, cioè del tutto incompatibili fra di loro. Abbiam ricordato le parole conclusive di questo volume: esse sembrano riprendere certi giudizi di Gramsci, di Grieco, di Togliatti; ma le discussioni iniziali sull’ambiente romagnolo o milanese o rurale o piccolo-borghese ci portano in tutt’altra sfera culturale; il giudizio sulla spregiudicatezza di Mussolini, quando cercava fondi per il "Popolo d’Italia", è di tipo moralistico-privato, e non tien conto del gran vento d’avventura che trascinò, in un modo o nell’altro, tanti uomini e tanta gente nei primi tre lustri del secolo e in maniera piú evidente dal 1914 in poi. Altrettanto avviene per questioni piú complesse: il De Felice sembra a volte far proprio il noto e sempre variamente ripetuto giudizio sulla responsabilità storica del Partito socialista italiano e dei suoi capi, – i quali sembrano diventare, nel suo discorso, i "socialisti" in generale, e a volte addirittura qualcosa come i rappresentanti in terra d’un "socialismo" preso in sé. Turati, Serrati, e gli altri, non furono interventisti, non furono sindacalisti rivoluzionari, rifiutarono il produttivismo collaborazionista, intravvidero l’eccessiva spregiudicatezza politica di Mussolini, identificarono in maniera sempre meglio articolata e definita il carattere reale del movimento fascista come reazione, al servizio del capitale; essi non ebbero fede nel "socialismo" di Mussolini, non credettero nel suo tentativo di innestare il "socialismo" sul tronco nazionale: quindi non furono "rivoluzionari", e combatterono Mussolini. Quell’innesto avrebbe dovuto aver luogo attraverso l’"interventismo", ma è lo stesso De Felice a farci conoscere e sapere quale strano ed eterogeneo coacervo si muovesse e rumoreggiasse dietro questo nome.
Conoscevamo finora molti tipi di interventisti, dai repubblicani ai nazionalisti, ai sindacalisti rivoluzionari i quali, – interpretando forse un’indistinta necessità di muoversi e far qualcosa, una disperata insofferenza degli operai, artigiani e contadini che essi guidavano, ma interpretandola a modo loro, cioè in un senso generale voluto da altri, ed espresso nelle tradizionali formule patriottiche e di odio contro ogni qualsiasi straniero o forestiero –, eran partiti in guerra ed eran caduti in combattimento, come per una passione pesante di solidarietà con il "popolo" o con "le plebi", come essi solevano dire. Fra questi estremi ci sono, e il De Felice ce li indica, molti tipi di interventisti. Ma interventisti per amore dell’intervento, e un interventismo in sé e per sé al quale sacrificare un po’ di rivoluzione, un po’ di socialismo, un po’ di liberalismo, un po’ di repubblicanesimo, ma non sembrava di conoscerli; ora sembra che per un certo periodo della vita di Mussolini l’"interventismo" fosse per lui il principio ideale fondamentale e rivoluzionario, non capito dai vecchi socialisti.
È vero certamente che tale impostazione permette di superare le lotte e le polemiche, gli odi e gli entusiasmi di anni che pur sono presenti ancora, come piaghe aperte o come ferite tanto ben cicatrizzate e indurite da diventare corazze paralizzanti: ma purtuttavia dobbiamo dire che, al di là del vetro asettico e resistente agli sbalzi di temperatura, leggermente velato allo scopo di evitare inopportune iridescenze, costituito da quello stile storiografico, intravvediamo, come distillata in concetti, l’ansia incerta e perplessa, il pathos soggettivamente probo e sincero, ma, in ultima analisi e in fin dei conti riducibile a una tacita accettazione, della quale ci parlava il nostro conoscente forlivese. Certo, il De Felice, – colto, intelligente, scaltrito ed avvertito com’è, – non si esprime in maniera cosí bonaria. Tuttavia, in fondo in fondo, quell’uomo che cerca (sembra quasi l’ebreo errante delle ballate ottocentesche), quel rivoluzionario che diventa reazionario, può sembrare ad un lettore anziano, fornito di qualche lettura e dotato forse di un po’ di senso ironico delle cose, benché non abbia competenza specializzata di storia contemporanea, un po’ troppo simile ad un uomo trascinato o attratto da qualche cosa di incomprensibile.
Il De Felice non afferma ciò, ma è questa l’impressione che ha il lettore. Ma forse tutto ciò ha un rapporto solo superficiale con la reale e grande importanza e novità dell’opera del De Felice. La riduzione in formule tipologiche, rigorose e lucide ma fragili come vetro, delle lotte e delle fatiche umane, che questo studioso sembra accettare, non dovrebbe fare ombra all’occhio esercitato, appena sia stata in qualche modo segnalata come abbiam cercato in qualche modo di segnalarla.

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