Dal XXI capitolo della "Storia del pensiero filosofico e
scientifico" (7 volumi)
Ludovico Geymonat
Garzanti, 1972
Si stenta a crederlo ma, nelle 28 pagine che formano il capitolo, Geymonat cita addirittura 30 volte Marx, Engels, Lenin, il materialismo dialettico, la scienza "borghese" schiava del capitalismo, la libera scienza "proletaria", gli scienziati sovietici, l'URSS, la Cina, la rivoluzione culturale di Mao. Si ha l'impressione di leggere un opuscolo di propaganda politica rozza e grossolana (qualunquista, appunto) anziché una ponderosa opera di filosofia. Infatti il nostro "filosofo" arriva a scrivere cose allucinanti come queste:
".... le masse.... sarebbe ridicolo non considerarle come "protagoniste" anche dello sviluppo della cultura". A parte l'evidente sciocchezza rappresentata dall'idea che le masse sarebbero "sviluppatrici di cultura", solo due righe più sotto aggiunge: "Il problema che qui ci interessa è invece un altro: è quello di individuare i compiti che le masse sono chiamate ad assolvere una volta entrate.... a far parte attiva dello sviluppo della cultura". Geymonat mostra di non capire che le masse non possono essere "protagoniste" proprio di niente quando c'è qualcuno che - dall'esterno e al posto loro - si arroga il diritto di individuare i compiti che esse dovranno assolvere. La contraddizione è talmente evidente che viene da chiedersi come mai Geymonat non sia stato capace di rilevarla. Allora la domanda diventa un'altra: "I tanti intellettuali come lui, i cosiddetti intellettuali organici, erano davvero in buonafede?".
A proposito della "Rivoluzione culturale maoista", dice: ".... le masse hanno dimostrato (in particolare con la rivoluzione culturale cinese) di saper esercitare anche un'altra funzione.... ancora più importante: .... denunciare e combattere i pericoli - sempre incombenti - della stagnazione burocratica". In questo caso, a dire il vero, un minimo di dubbio gli viene, ma osservate come lo elimina immediatamente: "Il loro intervento (delle masse partecipanti alla Rivoluzione culturale maoista. Nota mia) in questa lotta può talvolta assumere aspetti sconcertanti, in quanto può perfino apparire diretto contro la cultura in sé. Un esame più accurato e più profondo ci dimostra, però, che lo scopo di tale intervento è un altro:.... ridare alla cultura un'autentica libertà". Sì, ha scritto proprio LIBERTÀ della cultura. E presumo senza arrossire per la menzogna spudorata che aveva appena scritto. La Rivoluzione culturale maoista promotrice della LIBERTÀ della cultura, nientedimeno! Le Guardie Rosse di Mao bruciavano nelle piazze i libri e le opere d'arte come facevano i nazisti di Hitler, sottoponevano gli intellettuali a umilianti processi popolari pubblici, quando non li uccidevano o non li internavano nei campi di concentramento "rieducativi". Altro che libertà della cultura!
Sono uno psicologo perciò in questa sede non mi interessa tanto l'aspetto "politico" del fenomeno quanto la sua dimensione "psicologica". Mi chiedo come sia possibile che una mente poderosa come quella di Geymonat, allenata a costruire ragionamenti rigorosi e analisi sofisticatissime, una mente che si richiamava di continuo alla precisione del metodo scientifico, non abbia avvertito l'incongruenza e perfino il ridicolo delle affermazioni riportate sopra. Il quesito è tanto più intrigante in quanto si pone anche quando si prenda in considerazione tutta la schiera sterminata di intellettuali che accorsero nelle fila del marxismo-leninismo per diventarne i banditori e gli acritici corifei.
Qualcuno potrebbe farmi la solita obiezione: "È facile parlare col senno di poi!". No, non si tratta del senno di poi. Loro sapevano, sapevano eccome! Lo dimostra, tra l'altro, anche questa intervista rilasciata dal leader politico Pietro NENNI (*) a un noto settimanale di sinistra. L'intervista è riportata nel libro di Luigi De Marchi "Repressione sessuale e oppressione sociale", Sugar, 1965. Vale la pena di sottolineare che Geymonat ha scritto le stupefacenti righe riportate sopra quando il libro contenente l'intervista di Nenni era in circolazione già da sette anni. Cioè quando quelle notizie erano ormai di dominio pubblico. Forse non a livello degli iscritti di base, ma sicuramente a quello dei quadri dirigenti e degli intellettuali. Ecco l'intervista:
"Durante i nostri anni giovanili tutti demmo per sicuro e provato che fosse sufficiente abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione, abolire le classi, perché si raggiungesse una democrazia piena, una libertà fresca e completa al posto di quelle borghesi, in gran parte fittizie. Ma oggi bisogna ammettere che la realtà storica non consente una così semplicistica identificazione. In Russia.... la proprietà privata dei mezzi di produzione è certamente stata abolita, la borghesia, almeno nel significato tradizionale del termine, è stata tolta di mezzo.... La Russia è ormai, già da parecchi anni, la seconda potenza industriale del mondo.... Le condizioni economiche affinché le sovrastrutture politiche siano democratiche sembrerebbero dunque esistere.... Perché un paese che si trova in queste condizioni non riesce a darsi una vita politica democratica?.... Perché la partecipazione delle masse alla vita politica è di fatto inesistente, rasentando addirittura un rassegnato o indifferente qualunquismo? Ecco gli interrogativi ai quali bisogna rispondere con franchezza". (Le evidenziazioni sono mie).
(*) Nenni Pietro (1891-1980) . Segretario del Partito Socialista Italiano dal 1943 al 1946, e dal 1949 al 1963. Deputato dal 1946. Nominato senatore a vita nel 1970.
Adesso, alla luce di questo esempio, forse apparirà meno strampalata e meno contraddittoria la mia affermazione che l'intellettuale di sinistra può essere anche QUALUNQUISTA. Perché anche lui può costruire ragionamenti rozzi, semplificati, fuorvianti. E si può aggiungere che, quando lo fa, il suo qualunquismo è ancora più grave di quello che prospera a destra in quanto non ha l'attenuante dell'ignoranza.
Da un punto di vista psicologico, la domanda più interessante da porsi è questa: "Perché l'intellettuale di sinistra non provava almeno un po' di fastidio, se non proprio di ripugnanza, quando rinunciava ad usare anche il più elementare criterio di logica e di verità?". Mettiamo pure da parte tutti quelli che si comportavano così per convenienza e calcolo. Ce ne furono sicuramente, ma di loro non merita parlare. Per tutti gli altri, l'ipotesi che a me sembra più convincente è che lo facessero per almeno tre motivi:
Perché si lasciavano AFFASCINARE-SEDURRE-STREGARE dalla nobiltà del fine che il comunismo si prefigge, cioè liberare gli oppressi, creare un mondo nuovo basato sulla Libertà, sulla Giustizia e sull'Armonia.
È risaputo che, quando il fine è elevatissimo e nobilissimo, tutti i mezzi per raggiungerlo finiscono per apparire accettabili. Una volta Lelio Basso (*) rispose così ad un giornalista che gli chiedeva perché gli intellettuali di sinistra non avevano protestato contro i crimini di Stalin: "Noi sapevamo che in Russia era in corso un esperimento di portata storica". Come dire: "I nostri occhi erano rivolti al meraviglioso traguardo finale. Le cose sgradevoli che accadevano strada facendo, per noi erano accettabili in quanto rappresentavano solo incidenti di percorso che non offuscavano la luminosità della meta".
(*) Basso Lelio (1903-1978). Socialista dal 1921, antifascista, incarcerato e inviato al confino ripetutamente. Dopo la Liberazione è eletto deputato allAssemblea costituente, membro della commissione dei 75 per la stesura della costituzione. Segretario del PSI nel 1948-49, eletto deputato ininterrottamente fino al 1968. Studioso del movimento operaio internazionale, nel 1958 fonda la rivista Problemi del socialismo, nel 1964 partecipa alla formazione del Psiup. Tra il 1972 e 1976 è eletto senatore nella Sinistra indipendente. Nel 1973 viene nominato presidente del Tribunale Russel contro le violazioni dei diritti umani in America Latina.Una volta che ci si è arruolati in un esercito che sta combattendo una guerra, l'unico dovere che si impone è combattere il nemico. Non ci si può concedere il lusso di avere crisi di coscienza poiché ogni incertezza, ogni dubbio finiscono per essere visti come debolezza, come tradimento, come boicottaggio della vittoria finale.
L'intellettuale è sempre affetto da un certo complesso di inferiorità nei confronti di chi è capace di modificare concretamente la realtà. Lui avverte - in modo forse indistinto, ma non per questo meno intenso - che gli manca qualcosa, si sente impotente perché sa di vivere solo tra le pagine dei libri e i concetti astratti. È convinto che sono le idee a muovere il mondo, ma sa anche che questo avviene solo quando le idee trovano qualcuno che le trasformi in azione concreta, l'unica che incide effettivamente sulla realtà trasformandola. Che questo qualcuno sia un condottiero, un partito politico o uno Stato, per l'intellettuale non farà differenza, lui sarà sempre attratto da chi "fa la storia". Ecco quello che scrisse Hegel quando a Jena vide passare Napoleone il 13 ottobre 1806:
"Ho visto l'Imperatore quest'anima del mondo cavalcare attraverso la città per andare in ricognizione: è davvero un sentimento meraviglioso la vista di un tale individuo che, concentrato qui in un punto, seduto su di un cavallo, abbraccia il mondo e lo domina .
Se poi chi "fa la storia", modificando il mondo concretamente, adotta le stesse convinzioni che animano l'intellettuale, quest'ultimo si farà prendere da un entusiasmo tale da indurlo a rinunciare a qualsiasi spirito critico sacrificandolo sull'altare della FEDE e della SPERANZA. Che l'intellettuale si comporti proprio così lo conferma quanto scrive E. Morin (uno dei grandi intellettuali contemporanei che è stato marxista):
"Alla fine, spinto dal desiderio di unirmi agli altri nella lotta universale.... decisi che, nonostante la regressione barbarica cui aveva rivolto le sue energie, l'URSS rappresentava comunque la speranza dell'umanità".
(E. Morin, "I miei demoni", pag. 34, Meltemi, 1999).Conclusione: io credo che l'intellettuale vero sia quello che riesce a convivere con il DUBBIO, anzi quello che lo ricerca e lo coltiva nella fase in cui costruisce le sue convinzioni. Una volta che si è creato queste convinzioni, poi, deve essere sempre pronto a riconsiderarle se qualcuno gli prospetta punti di vista che in precedenza gli erano sfuggiti. Appena l'intellettuale non si accontenta più di avere OPINIONI, appena si lascia possedere dalle convinzioni ASSOLUTE, abdica al suo compito e si trasforma, da meravigliosa macchina per pensare, in fanatico propagandista di una ideologia. Per favorire la quale non si tira più indietro nemmeno di fronte ad operazioni mortificanti e mistificatorie come quella che ho cercato di descrivere in questa pagina.